Letture e Conferenze
Arturo Gallia
IL RUOLO DELLA CINA IN AFRICA
TRA INTERESSI ECONOMICO-POLITICI, SFRUTTAMENTO
DELLE RISORSE NATURALI E CONFLITTI SOCIALI
Intervento presentato alla Conferenza di Studi Africanistici, nel Panel 19 -Accesso e controllo delle risorse
energetiche africane, tra scenari globali e interessi locali, organizzata dall'Università "L'Orientale" di Napoli,
30 settembre - 2 ottobre 2010.
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Arturo Gallia, // ruolo della Cina in Africa, tra interessi economico-politici, sfruttamento delle risorse naturali e conflitti sociali
Conferenza di Studi Africanistici - Napoli, 30 settembre -2 ottobre 2010
In questo intervento si cercherà di delineare, secondo alcune direttrici e con l'analisi di
alcuni casi di studio, la natura degli interessi economici e commerciali della Cina in Africa e le
modalità con cui vengono gestititi i rapporti con i governi e con le popolazioni africane,
focalizzando l'attenzione sullo sfruttamento delle risorse energetiche e petrolifere, in
particolare.
a) In primo luogo, si proporrà un breve excursus cronologico dei rapporti economici tra
la Cina e i paesi africani, limitato ad un arco temporale compreso tra la nascita dei primi
governi indipendenti africani e i nostri giorni e più specificatamente all'ultimo incontro del
Forum per la Cooperazione Cina-Africa, tenutosi nel novembre 2009 a Sharm El Sheikh, in
Egitto.
b) In secondo luogo, si cercherà di offrire un quadro sulla natura dell'approccio che la
Cina sta perseguendo per ottenere i migliori risultati possibili nel continente africano, dal
punto di vista degli accordi economici, degli investimenti e dello sfruttamento delle risorse
naturali ed energetiche.
e) Successivamente, l'analisi si focalizzerà sulle azioni promosse dal governo e dalle
aziende cinesi nel campo dello sfruttamento petrolifero e dei rapporti instaurati con i
governi dei paesi in cui si registrano forti presenze di idrocarburi, soprattutto Sudan, Nigeria
e Angola.
d) Per concludere, si cercherà di decifrare i possibili scenari futuri per il continente
africano alla luce della natura degli interventi cinesi, dei rapporti con gli stati africani e delle
reazioni dei governi occidentali e delle popolazioni africane.
a) Agli inizi degli anni '80, la Cina era uno dei paesi più poveri al mondo. Grazie alle
riforme economiche promosse a partire dal 1978, la sua economia ha conosciuto una
crescita media dell'8% annuo (Dollar, 2008). Tuttavia nell'ultimo decennio si sono registrati
valori ancora più elevati: secondo la Banca Mondiale, infatti, dal 2001 si è assistito ad una
crescita annuale media dell'economia cinese del 10%, con punte del 30% in alcuni settori, tra
cui il commercio 1 , e durante la scorsa estate la Cina ha sorpassato il Giappone, divenendo la
1 Cfr. Data, in The World Bank [http://data.worldbank.org/] (5 settembre 2010).
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seconda potenza economica mondiale, alle spalle degli Stati Uniti 2 . Questo tasso di crescita
ha obbligato il governo e le aziende cinesi a cercare nuove materie prime al di fuori dei
propri confini nazionali, al fine di supportare continuamente la produzione industriale.
Uno dei maggiori "territori d'espansione" è stato individuato nel continente africano
(Aksouri, 2008). Tuttavia, gli interessi economici cinesi in Africa non sono recenti. Sporadici
rapporti culturali e commerciali tra la Cina e i paesi africani sono stati riscontrati già in età
medioevale, ma è solo a partire dagli anni '60 del Novecento che gli interessi politici del
governo cinese volsero verso l'Africa, grazie anche agli impulsi del Partito Comunista Cinese 3 .
Successivamente alla conferenza di Bandung del 1955, nella quale i capi di stato di diversi
paesi asiatici ed africani condannarono tutte le forme di oppressione coloniale da parte dei
paesi occidentali, il governo cinese sostenne i movimenti rivoluzionari di liberazione
nazionale e dei nascenti governi socialisti, nella ricerca di alleati del Terzo Mondo, che gli
consentissero di interrompere il proprio isolamento politico. Parallelamente ad alleanze
politiche, furono stipulati accordi economici, che per tutti gli anni '70 hanno favorito lo
sviluppo economico dei paesi africani (Cini, 2006) 4 .
Negli anni '80 e '90 si è assistito ad un rallentamento delle relazioni sino-africane, che
sono state poi rilanciate con il primo Forum per la Cooperazione Cina-Africa 5 , tenutosi a
Pechino tra il 10 e il 12 ottobre del 2000, durante il quale vennero promossi investimenti
cinesi in Africa e siglati accordi economici tra il governo cinese e i governi di diversi paesi
africani. Nella dichiarazione finale 6 , vennero affermate le volontà di creare un nuovo tipo di
cooperazione duratura "Sud-Sud" tra la Cina e i paesi africani (art. 9) e di creare e rafforzare
una partnership sino-africana in tutti i settori (economia, finanza, commercio, agricoltura,
sanità, ambiente, turismo e sviluppo tecnologico, culturale, sociale) (art. 10). Inoltre, tra le
iniziative adottate al fine di mantenere buone relazioni, o stabilirne di nuove, in
quell'occasione il governo cinese annullò il «debito di 31 paesi africani [...] per un totale di
La Cina sorpassa il Giappone, in «Il Post», 1 agosto 2010 [http://www.ilpost.it/2010/08/01/la-cina-sorpassa-il-
giappone/] (5 settembre 2010).
Per ulteriori approfondimenti, cfr. il quarto capitolo, "Breve storia della Cina in Africa (1421-2008)", del
volume S. Michel, M. Beuret, Cinafrica. Pechino alla conquista del continente nero, Milano, Il Saggiatore, 2009,
pp. 62-69; T. Filesi, / viaggi dei Cinesi in Africa nel Medioevo, Roma, Istituto Italiano per l'Africa, 1961.
Per ulteriori approfondimenti sulle relazioni sino-africane negli anni '60 e '70, cfr. A. Ogunsanwo, China's
Policy in Africa. 1958-71, Cambridge, Cambridge University Press, 1974.
Forum for China-Africa Co-Operation (FOCAC) [http://www.focac.org/] (5 settembre 2010).
Beijing Declaration of the Forum on China-Africa Cooperation, Beijing, 10-12 ottobre 2010
[http://www.focac.org/eng/ltda/dyjbzjhy/DOC12009/t606796.htm] (5 settembre 2010).
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1,3 miliardi di dollari» e accordò «a 28 paesi africani l'abolizione delle tasse all'importazione
per 190 articoli» (Cini, 2006: 11-12).
Grazie a questi interventi, la Cina è riuscita a sorpassare prima la Gran Bretagna nel
2005 e poi la Francia nel 2007, divenendo il secondo partner commerciale al mondo con i
paesi africani, alle spalle degli Stati Uniti (Michel, Beuret, 2009: 11).
Al termine dell'ultimo incontro del Forum per la Cooperazione Cina-Africa, tenutosi a
Sharm el Sheikh, in Egitto, tra l'8 e il 9 novembre 2009, i capi di stato africani e i
rappresentanti del governi cinesi hanno approvato una dichiarazione conclusiva che
riaffermava il valore di una cooperazione Sud-Sud, in special modo nel momento della crisi
finanziaria, in alternativa ai modelli di sviluppo promossi dalle Nazioni Unite e dai governi
occidentali. Inoltre, veniva sottolineata l'importanza di uno sviluppo autonomo dei paesi
africani, tuttavia lodando il ruolo importante e necessario a tal fine della Cina. Proprio la Cina
è da applaudire, secondo la dichiarazione, per essere così bene andata in contro alle
esigenze dei diversi paesi africani in un momento di crisi finanziaria, durante il quale i
governi occidentali hanno ridotto il proprio supporto economico.
Infine, veniva annunciata l'adozione dello Sharm El Sheikh Action Pian ofthe Forum on
China-Africa Cooperation (2010-2012). Esso è un vasto piano di azione triennale, organizzato
in sette punti, attraverso il quale la Cina e i paesi africani contraenti si impegnano a
rafforzare la cooperazione sino-africana su più fronti, non solo economici, al fine di creare un
nuovo modello di sviluppo 7 .
b) L'"approdo" della Cina nel contesto geopolitico ed economico africano ha portato
ad una riformulazione dell'agenda dei paesi occidentali nelle politiche di aiuto allo sviluppo
del continente. «La comparsa di una fonte alternativa di sviluppo finanziario [...] presenta
nuove opportunità ai governi africani» (Alden, 2008: 9). Nel giro di pochi anni, le élites dei
governi africani si sono ritrovate davanti alla forte attrattiva degli investimenti cinesi, offerti
"senza condizioni". «I cinesi, infatti, sono per la "non-interferenza"» negli affari interni
africani.
Cfr. Sharm El Sheikh Action Pian of the Forum on China-Africa Cooperation (2010-2012), in FOCAC
[http://www.focac.org/eng/dsjbzjhy/hywj/t626387.htm] (9 settembre 2010).
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Questa "politica senza condizioni" è stata promossa con clamore a partire dal primo
Forum Cina-Africa del 2000 e, sebbene imponga il non riconoscimento di Taiwan da parte dei
governi africani a vantaggio di "una sola Cina", è in netto contrasto con l'approccio allo
sviluppo perseguito dai governi occidentali. Prima del 2000, infatti, investitori occidentali e
Banca Mondiale erano in grado di imporre le proprie priorità agli investimenti in Africa. Oggi
si assiste sempre più all'emergere di un Beijing consensus, in alternativa al Washington
consensus, destando nuovi spunti di riflessione.
Il Washington consensus è fondato sulle priorità imposte da Banca Mondiale, Fondo
Monetario Internazionale e investitori occidentali e sul rispetto di alcune clausole, tra cui
«restrizioni di politica macro-economica, riduzioni nella spesa pubblica e impegni alla
trasparenza» (Alden, 2008: 10), nonché sulla promozione di elezioni democratiche.
Il Beijing consensus, invece, si basa sulla non interferenza degli affari interni e,
soprattutto, sulla «promozione dell'integrità sovrana degli stati africani» (Alden, 2008: 10),
esercitando, perciò, un grande fascino nei confronti di molti leader africani. La politica senza
condizioni della Cina mette, perciò, in crisi la struttura del modello di aiuti allo sviluppo
basato principalmente sulla good governance.
Tra gli altri aspetti caratteristici degli investimenti cinesi in Africa, vi è il nuovo modello
di cooperazione Sud-Sud, in contrasto con il precedente Nord-Sud. Questo modello, fa sì che
venga promosso lo scambio di materie prime, provenienti dall'Africa, con prodotti finiti,
provenienti dall'Asia. Tuttavia, questo scambio viene spesso visto come un saccheggio di
risorse minerarie e petrolifere da parte della Cina e un conseguente soffocamento
dell'industria locale africana (Gazibo, 2008).
Questi aspetti hanno portato alla formulazione di diversi quesiti su quale sia la natura
dell'intervento della Cina in Africa e le possibili conseguenze che esso può comportare per le
popolazioni africane, dando luogo a dibattiti, soprattutto in Europa e negli Stati Uniti,
all'interno dei quali sono state formulate sostanzialmente tre interpretazioni di questo
processo (Alden, 2007: 5 e ss.).
La prima identifica la Cina quale partner di sviluppo per i governi africani, promotore di
politiche di investimento a lungo termine, in grado di favorire i propri interessi e al tempo
stesso di stimolare i mercati africani, costruendo una vera e propria cooperazione non solo
commerciale.
La seconda, al contrario, sostiene che l'interessamento cinese in Africa sia a breve
termine, con il fine di sfruttare il più velocemente possibile la maggiore quantità disponibile
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di risorse naturali ed energetiche dell'Africa. In questo modo, la Cina si pone come un nuovo
concorrente economico, in grado di sopraffare non solo gli investitori occidentali, ma anche
la ancora debole industria locale africana.
La terza interpretazione, infine, delinea l'intervento cinese in Africa come una nuova
forma di colonizzazione, focalizzata sullo smantellamento dei modelli di sviluppo occidentali
attraverso il controllo politico delle élites governative africane, in nome di una cooperazione
Sud-Sud e in cambio di ingenti investimenti economici (Alden, 2007: 5 e ss.; Aksouri, 2008).
A dieci anni dal primo Forum Cina-Africa, in realtà, sembra che non sia sufficiente
un'unica categoria per definire la natura dell'intervento cinese in Africa. Forme di
classificazione tradizionali, e soprattutto occidentali, non riescono a cogliere per intero la
complessità di questo processo promosso con tale forza dal governo cinese.
Si potrebbe affermare che nessuna delle interpretazioni date sia adatta allo scopo, ma
che al tempo stesso le politiche cinesi rispecchino diversi aspetti di ciascuna di esse.
Per cercare di comprendere al meglio, è necessario fare alcune precisazioni.
Innanzitutto, primi dubbi vengono sollevati sull'utilizzo del termine "colonialismo", utilizzato
in questo caso non tanto per definire un processo di dominazione economica e politica di un
governo su un altro, quanto per accostare l'espansione cinese ai processi di espansione
europea in Africa, perseguiti intorno alla metà del XIX secolo. Dunque, sembra anacronistico
comparare l'intervento cinese alle espansioni coloniali francesi, inglesi, tedesche e belghe.
D'altra parte, «la Cina non ha [...] una tradizione imperialista» (Gazibo, 2008: 16), così
come si intende per quel processo sorto al'interno del contesto europeo. Né la persegue
oggi. Infatti, la costituzione cinese si oppone formalmente al colonialismo (He Wenping,
2007: 29), motivo per cui la Cina mira alla propria crescita economica, che dipende
strettamente da un ambiente stabile in cui svilupparsi. Secondo la cultura - e la classe
dirigente - cinese, non vi è minaccia più grande alla stabilità che un'azione finalizzata alla
ricerca di dominio, che porta a conflitti che i cinesi sanno di non poter affrontare e vincere,
soprattutto nei confronti del loro maggior avversario in Africa, ovvero gli Stati Uniti (Gazibo,
2008: 17).
A livello internazionale, quindi, l'approccio diplomatico cinese è di basso profilo, così
come tracciato da Deng Xiaoping e proseguito da Jiang Zeming e nuovamente riaffermato da
Hu Jintao nella "dottrina dei quattro no": no all'egemonia, no alla politica della forza, no alla
politica dei blocchi, no alla corsa agli armamenti (Gazibo, 2008: 17). Tale dottrina mira alla
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preservazione delle condizioni necessarie per garantire lo sviluppo economico cinese dei
prossimi vent'anni, senza alcun turbamento.
In questo modo, inoltre, si ritiene da parte della dirigenza cinese che una politica
multilaterale favorisca meglio gli interessi nazionali rispetto ad una politica di supremazia. A
tal fine, la Cina ha aderito nel corso degli anni ad un numero sempre maggiore di
organizzazioni internazionali, passando dalle 21 di cui era membro negli anni '70 alle 52 negli
anni '90, con l'adesione all'Organizzazione Mondiale del Commercio nel 2001. In tal modo, la
Cina è riuscita a costruire, a livello bilaterale e multilaterale, una propria immagine di
interlocutore affidabile, che sostiene e non minaccia, nonostante la propria potenza
(Shambaugh, 2005).
Tuttavia, sebbene la Cina non abbia mire imperialiste sull'Africa, sono evidenti due
fattori. In primo luogo, «le relazioni sino-africane non sono simmetriche». La Cina, infatti,
difende i propri interessi e priorità e spesso non si fa scrupoli ai metodi - poco trasparenti e
molto criticati - utilizzati. Nonostante ciò, «la Cina è percepita [da parte dei governi africani]
come più accomodante e più rispettosa nei loro confronti» (Gazibo, 2008: 22), rispetto ai
paesi occidentali.
In secondo luogo, e conseguenza del primo, tra i metodi utilizzati per favorire i propri
interessi in Africa vi è la destabilizzazione di contesti africani. In contesti instabili o in
presenza di conflitto le compagnie occidentali arretrano il proprio raggio d'azione. D'altra
parte, laddove non c'è un governo stabile e democratico, il governo e le aziende cinesi
riescono a sfruttare il maggior numero di risorse naturali ed energetiche, in cambio di
investimenti. L'approvazione dell'intervento cinese da parte dei governi monocratici africani
è la chiave di volta su cui di basano i profitti cinesi nel continente e questo sembra riuscire
particolarmente bene per diversi motivi.
Innanzitutto, la Cina ha un sistema politico a partito unico e si trova a dialogare bene
con ordinamenti simili. Un altro aspetto è la praticamente illimitata disponibilità da parte
della Cina a prestare denaro ai governi africani. Si ritiene che questo aspetta favorisca i
conflitti interni, dove le élites militari sono disposte a tutto pur di ottenere il potere e,
quindi, il denaro cinese. D'altra parte, sebbene la Cina dichiari di non voler interferire negli
affari interni dei paesi africani, di fatto si propone di finanziare chiunque voglia salire al
governo, purché riconosca e appoggi la politica di "una sola Cina". Alle critiche mosse
riguardo questo effetto domino creato dalle politiche cinesi, Pechino ripete che «la
democrazia non fa per l'Africa» (Aksouri, 2008: 27).
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Ultimo aspetto della destabilizzazione promossa nei contesti africani riguarda il boom
demografico registrato in Cina negli ultimi anni. La sovrabbondanza di popolazione,
soprattutto nelle aree rurali, ha fatto sì che il governo cinese abbia promosso politiche di
emigrazione. Il finanziamento di grandi progetti infrastrutturali - le dighe in primis -
comporta la destrutturazione delle comunità locali africane, al posto delle quali la Cina riesce
a stabilizzare la propria popolazione sottoforma di forza lavoro.
A riguardo, uno dei casi esemplari è la costruzione della diga di Hamdab, nei pressi di
Merowe, in Sudan. Si tratta di un vasto progetto di sbarramento del fiume Nilo e di
produzione di energia idroelettrica presso la quarta cateratta, promosso dal governo
sudanese e finanziato per buona parte dal governo cinese. Il costo totale per la realizzazione
della diga e della centrale elettrica e per l'equipaggiamento tecnico è stato di 1200 milioni di
euro, di cui 1/5 finanziato dalla China Import Export Bank. La costruzione della diga rientrava
nel più vasto Equatorial Nile Project, ideato e promosso nel 1946 da H.E. Hurst, direttore
generale del Physical Department del Ministero dei Lavori pubblici egiziano (Howell, 2008).
Per carenza di fondi non se ne fece nulla addirittura fino al 1999, quando il Sudan cominciò
ad estrarre e vendere il petrolio autonomamente, riuscendo così a finanziare il progetto, la
cui realizzazione iniziò nel 2002 ed è stata portata a termine, con l'inaugurazione della diga,
il 3 marzo 2009.
Prima dell'inizio dei lavori, vivevano lungo il fiume in prossimità della quarta cateratta
più di 50 mila persone, per la maggior parte nomadi o coltivatori di palme da dattero. A
latere del progetto principale della diga, il governo sudanese aveva pianificato la costruzione
di quattro nuovi villaggi per il reinsediamento della popolazione che viveva lungo le sponde
del fiume. Tuttavia, fin dal principio dell'insediamento nei nuovi villaggi, la popolazione ha
lamentato che le nuove case sono state costruite in mezzo al deserto, lontano dal fiume;
l'acqua per irrigare prima veniva captata liberamente dal Nilo, ora viene fornita a pagamento
per mezzo di un acquedotto; non tutte le popolazioni, poi, sono state reinsediate, ma solo i
contadini che avevano un terreno che coltivavano. Le popolazioni nomadi "non sono
rientrate nel progetto". Alle proteste dei rappresentanti delle popolazioni interessate le
autorità governative e della diga hanno risposto respingendo ogni diritto e promovendo una
campagna di persecuzioni e detenzioni contro gli oppositori al progetto - e al governo.
Secondo alcuni analisti (Aksouri, 2008:29), la creazione di queste destabilizzazione
favorisce l'insediamento delle aziende, ma anche della popolazione cinese. Infatti, nei pressi
della diga, è stato costruito un nuovo villaggio di 280 mila metri quadrati in grado di ospitare
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gli operai delle compagnie cinesi al lavoro nei cantieri della diga, del nuovo aeroporto, del
nuovo ospedale e dei nuovi tratti stradali e ferroviari. Gli appalti per la costruzione di tutte
queste opere ed altre infrastrutture minori sono stati vinti dalla China International Water
and Electrical Corporation (CWE) e dalla China National Resource and Hydropower
Engineering Corporation (CWHEC), conosciuta anche come SinoHydro (Aksouri, 2008: 29).
# # *
e) Al fine di costruire imprese di livello mondiale e supportare costantemente la rapida
crescita della propria economia, la Cina necessita di ingenti quantità di risorse energetiche.
Tra queste vi sono il carbone e il petrolio. Sul proprio territorio nazionale dispone di una
buona quantità di miniere di carbone. Per quanto riguarda il petrolio, la Cina dipende dalle
importazioni dall'estero e il 25% del suo fabbisogno petrolifero proviene dall'Africa.
Al fine di non dover dipendere dagli "umori" del mercato internazionale, il governo
cinese ha promosso la creazione e l'insediamento in Africa di compagnie petrolifere di livello
internazionale.
Le tre più grandi compagnie petrolifere cinesi sono la Chinese National Petroleum
Company (CNPC), la China Petroleum and Chemical Corporation (Sinopec) e la China National
Offshore OH Corporation (CNOOC).
Sebbene le compagnie cinesi soffrano di una scarsa esperienza nel settore e di un
equipaggiamento tecnologico decisamente inferiore alle concorrenti occidentali, sono in
grado di insediarsi nel territorio grazie ad una maggiore agilità, flessibilità e disponibilità nei
confronti delle richieste dei paesi africani. La necessità di ottenere la più grande quantità
possibile di petrolio, fa sì che il governo cinese si faccia pochi scrupoli per ottenere questa
risorsa naturale. Uno degli strumenti maggiormente utilizzati è quello di proporre ingenti
investimenti nei paesi africani, pur di ottenere contratti in esclusiva per l'estrazione e
l'esportazione di petrolio.
Ovviamente, questo processo va a scardinare i modelli proposti dalle compagnie
occidentali, poco propense ad investimenti a lungo termine e bisognose di un profitto
immediato.
Dai parte degli analisti occidentali, quindi, le compagnie cinesi vengono viste come
«cacciatori di frodo su un terreno in precedenza esclusivamente occidentale» (Soares de
Oliveira, 2008: 52), anche si ritiene che non sia plausibile che possano sostenere tali
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investimenti ancora a lungo e che nel giro di pochi anni si allineeranno ai «parametri
finanziari e commerciali accettabili dalla maggior parte delle compagnie petrolifere
internazionali» (Ebel, 2005: 41).
L'ingresso della Cina in Africa come attore forte ha portato ad un cambiamento
definito addirittura rivoluzionario (Soares de Oliveira, 2008: 52) nel settore petrolifero del
continente.
L'aumento della concorrenza ha portato all'impiego di nuove tecnologie per la
scoperta di nuovi giacimenti e per l'estrazione di riserve in profondità, facendo sì che negli
ultimi dieci anni i paesi che si affacciano sul Golfo di Guinea abbiano raggiunto il 5% delle
riserve petrolifere mondiali, di cui l'80% nelle sole Angola e Nigeria. Tuttavia, il Golfo di
Guinea è storicamente area di azione delle compagnie occidentali, per cui la presenza cinese
è ridotta.
Ben più forte è la presenza della Cina nel territorio di uno dei suoi maggiori partner: il
Sudan. Marginalizzato dai governi occidentali fin dagli anni '90, il Sudan è stato uno dei primi
paesi sostenuti dalla Cina, che ha immediatamente colto le opportunità di insediarvisi e di
sfruttarne ogni possibile risorsa in maniera pressoché incontrastata. D'altra parte, il
supporto della Cina garantisce al governo sudanese, in primo luogo, di alleviare le critiche
internazionali circa le violenze promosse dal regime di Bashir, soprattutto per quanto
riguarda le vicende del Darfur.
In secondo luogo, gli investimenti cinesi garantiscono la stessa sopravvivenza del
regime. Tra i maggiori investimenti, oltre al già citato caso della Diga di Hamdab, vi è quello
della Chinese National Petroleum Company, divenuta il primo azionista della Greater Nile
Petroleum Operation Co. (GNPOC), controllando di fatto la maggior parte dell'estrazione di
petrolio nel paese.
Come detto, tali investimenti non giungono individualmente dalle aziende cinesi, le
quali propongono quasi sempre "pacchetti speciali", che offrono aiuti, linee di credito,
investimenti e realizzazione di infrastrutture anche in settori diversi da quello petrolifero
(Soares de Oliveira, 2008: 53).
Così è stato in Sudan per la Diga di Hamdab, dove sono stati realizzati un aeroporto, un
ospedale e infrastrutture di comunicazione.
Così è in Nigeria dove la China National Offshore OH Corporation ha offerto un
impegno di spesa per lo sviluppo pari a 2,7 miliardi di dollari, oltre all'acquisto del 45% di un
giacimento petrolifero nel Delta del Niger per altri 2 miliardi di dollari (Soares de Oliveira,
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2008: 53). A questo si sono aggiunti l'acquisto di quattro licenze di perforazione e l'offerta di
acquisto della raffineria di Kaduna, accompagnati dall'investimento di 1 miliardo per
l'ammodernamento del sistema ferroviario del paese.
Di fronte a tanta generosità, il governo nigeriano ha preferito siglare contratti con le
aziende cinesi, piuttosto che con quelle occidentali.
Tutto questo appare evidente anche in Angola, che negli ultimi tre anni è stata in grado
di sorpassare l'Arabia Saudita quale principale fonte di petrolio per la Cina. Il modello di
investimento proposto in questo paese dalle aziende cinesi ricalca quello visto per i
precedenti. Nel 2004 l'offerta della Sinopec ha sorpassato quella della compagnia indiana OH
and Naturai Gas Corporation per l'acquisto del terzo giacimento petrolifero del paese,
includendo anche una ricca linea di credito e l'impegno di ricostruire il disastrato sistema
ferroviario. La stessa Sinopec, poi, ha partecipato ad una joint venture per l'acquisizione e il
finanziamento della Sonaref, una raffineria nei pressi di Lobito da 200 mila barili di greggio al
giorno (Soares de Oliveira, 2008: 54).
Oltre a questo, in due anni la Sinopec ha investito in Angola altri 6 miliardi di dollari,
permettendo così al paese di pianificare e portare avanti una strategia di ricostruzione
postbellica senza far ricorso agli investimenti e alle clausole di trasparenza richieste dagli
investitori occidentali.
Complessivamente, dunque, sebbene l'esperienza e la tecnologia cinese siano inferiori
a quelle delle compagnie occidentali, la strategia di offrire contratti generosi a lungo termine
e "senza condizioni", fa sì che i governi dei paesi africani siano meglio predisposti nei loro
confronti che verso le compagnie occidentali.
Tale strategia è supportata dal governo cinese con una politica di "diplomazia attiva"
che prevede visite di stato frequenti nei paesi africani e il supporto nello scenario politico
internazionale, spiegando così l'attrattiva che la Cina esercita su coloro i quali detengono il
potere in Africa.
Tuttavia se l'arrivo dei cinesi in Africa e il loro sfruttamento delle risorse naturali ed
energetiche è ben accolto dalle élites di governo africane, lo stesso non si può dire per le
popolazioni locali, che difficilmente riescono a trarre vantaggi dalla presenza cinese.
Allo stesso modo, le forze politiche opposte a quelle di governo non hanno possibilità
di trattativa con gli investitori orientali. Pertanto ai loro occhi le fabbriche cinesi, i loro pozzi
di petrolio, i loro insediamenti residenziali, divengono i principali obiettivi della protesta
contro i governi o i regimi nazionali. Così avviene in Sudan, così è avvenuto in Nigeria dove
il
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rappresentanti dei movimenti separatisti del Delta del Niger hanno attaccato più volte i
pozzi, le raffinerie e i veicoli cinesi.
Ciò nonostante, questi avvenimenti non rallentano una così grande industria, ritenuta
vitale dai governi africani per la crescita dei propri paesi. Infatti, l'effetto più evidente dal
punto di vista politico dei partenariati sino-africani è stato quello di rafforzare i governi
autoritari, che però fanno un uso del proprio potere che non va a vantaggio dell'intera
comunità nazionale.
d) Tutto questo «comporta importanti conseguenze per la politica africana e le
relazioni che il continente intrattiene con il resto del mondo» (Soares de Oliveira, 2008: 48).
Infatti, l'ascesa della Cina a status di "potenza petrolifera" in Africa apre il dibattito su
diverse questioni legate al futuro del continente.
In primo luogo, l'aumento della concorrenza con la nascita di un nuovo attore inasprirà
la corsa all'oro nero nel continente, andando a saturare un settore fino ad oggi sfruttato
quasi esclusivamente da compagnie occidentali.
In secondo luogo, questa concorrenza danneggerà ancora le popolazioni africane, che
subiranno passivamente lo scontro che verrà a crearsi tra compagnie occidentali e
compagnie orientali per l'acquisizione dell'ultimo giacimento petrolifero.
Se le compagnie occidentali non ritireranno il proprio raggio d'azione in Africa, cosa
che nemmeno i governi africani vogliono, la spinta propulsiva delle compagnie cinesi rischia
di soffocare il mercato, non solo energetico, del continente. Accortezze commerciali e
riflessioni economiche vengono spesso messe da parte al fine di perseguire e salvaguardare
la priorità del governo cinese, ovvero la propria sicurezza energetica. Tale determinazione,
affiancata dai cospicui investimenti, fa sì che i governi africani siano ciechi riguardo i possibili
pericoli derivanti dal contrarre accordi con loro. «Chi detiene il potere in Africa ha
sapientemente sfruttato a proprio vantaggio la presenza cinese per produrre progressi nelle
loro agende politiche, pur con risultati negativi in termini di sviluppo» (Soares de Oliveira,
2008: 60).
Se esiste un potenziale benefico negli investimenti cinesi in Africa, quando si parla di
petrolio è difficile pensare che ci possano essere «benefici significativi per la maggioranza
degli africani» (Soares de Oliveira, 2008: 61).
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Letture e Conferenze, 1
Arturo Gallia, // ruolo della Cina in Africa, tra interessi economico-politici, sfruttamento delle risorse naturali e conflitti sociali
Conferenza di Studi Africanistici - Napoli, 30 settembre -2 ottobre 2010
Sebbene queste conseguenze negative siano per buona parte il risultato delle attività
delle compagnie petrolifere - occidentali e cinesi - «è innegabile che le risorse rese
disponibili dall'attuale boom petrolifero [...] offrono ai leader politici degli Stati africani ricchi
di petrolio l'opportunità di effettuare scelte circa il benessere dei loro cittadini» (Soares de
Oliveira, 2008: 61).
Pertanto, un ruolo importante è ricoperto proprio dai leader africani, che in base alle
loro scelte sono in grado di determinare la prosperità o la disgrazia dei loro connazionali, ed
anche degli africani in tutto il continente.
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Letture e Conferenze, 1
Arturo Gallia, // ruolo della Cina in Africa, tra interessi economico-politici, sfruttamento delle risorse naturali e conflitti sociali
Conferenza di Studi Africanistici - Napoli, 30 settembre -2 ottobre 2010
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